Con che mezzo e come facessero ad arrivare dalle nostre parti è un mistero, fatto sta che con l’inizio dell’autunno e fino al tempo di Natale, una volta ogni quindici gioni, gli ambulanti di acciughe facevano la loro comparsa nei borghi dell’Oltretorrentene della Parma Vecchia.
Lo ricordava ancora con un pizzico di nostalgia mista a “magón” Umberto Vicini, parmigiano del sasso, fratello dell’indimenticato Luigi, il poeta dei sublimi sentimenti “dedlà da l’àcua”. Umberto rammentava che quando incominciavano ad apparire negli angoli dei borghi i baracchini di castagne con il loro inconfondibile profumo e le stradicciole erano immerse nei fiati torbidi di nebbia, facevano la loro apparizione gli acciugai “che indossavano una sortabdi uniforme, ossia calzoni di fustagno e giacconi di velluto”.
Erano montanari piemontesi che arrivavano da chissà quale valle e percorrevano le città emiliane trainando i loro carrettini, sui quali erano sistemati bariletti di acciughe, alici e sardine. Al robusto grido “anciue” che echeggiava nei borghi, i vendotori piemontesi erano in un baleno circondati dalle “rezdóre” che scendevano in strada per acquistare quei pesci conservati sotto sale i quali, dopo essere stati pesati in quelle bilance portatili che i montanari tenevano appoggiate sulle spalle, venivano avvolte in fogli di giornale che grondavano sale ed emanavano dopo poco profumo di mare.

Tratto da “Jerdlà, Memorie Parmigiane – Volume 1” di Lorenzo Sartorio (2008)