Fino al secondo dopoguerra era frequente che i contadini producessero in proprio il vino, secondo i modi tradizionali che si trasmettevano di padre in figlio, con risultati molto diversi da casolare a casolare. Chi il Lambrusco lo faceva più chiaro o più scuro, con la “màcia” , come si diceva, più o meno spumante a seconda della fase lunare in cui si imbottigliava. La gente del paese aveva sempre un conoscente, un amico che faceva il vino in campagna e da lui si approvvigionava. E c’era anche chi andava oltre e si impeovvisava vignaiolo, cioè prendeva in affitto un filare di viti, se lo governava per tutto l’anno e alla vendemmia, o usufruiva della cantina del contadino per la pigiatura (rigorosamente mimando ai piedi nudi una bacchica danza propiziatoria), la spremitura con aggiunta d’acqua per ricavare talvolta ottimo mezzovino, la fermentazione nei tini, la conservazione nelle damigiane e l’imbottigliamento, seguendo rigorosamente le fasi lunari favorevoli.
Tratto da “Tintinnar di Bicchieri – Vini e Vignaiuoli a Parma” a cura delle Delegazioni della Provincia di Parma dell’Accademia Italiana della Cucina (2006)