Li chiamavano «racconti di stalla». Un pò strana come definizione, ma rigorosamente rispondente al vero. Le «storie di stalla» erano quelle che venivano narrate alla gente proprio nelle stalle, ma anche nei «metati», gli essicatoi, che un tempo apparivano come folletti nei boschi del nostro appennino e della vicina Lunigiana.

Il ritrovarsi nella stalla in inverno rispondeva all’esigenza di trascorrere, dopo la spartana cena, un’oretta insieme alla propria famiglia ed ai vicini di casa o di corte, prima di tuffarsi sotto le coperte di quelle stanzone fredde dove dai travi penzolavano i salami ad «asciugare» e dove, nemmeno il «prete», riusciva a scaldare più di tanto il letto.

Ma nella stalla ci si stava bene, le bestie dispensavano generosamente calore, le finestrelle piccole e ben chiuse non consentivano che il tepore uscisse e quindi, senza consumare legna, si poteva stare in veglia alla fioca luce di una «lùmma a òli frùsst» il cui combustibile era portato a turno da uno dei «redzór» delle famiglie che partecipavano al «filós». Questa, infatti, era l’esatta denominazione delle antiche veglie contadine. Forse il termine alludeva a filare in quanto, anticamente, era una delle attività preminenti alle quali si dedicavano le donne durante le lunghe serate invernali.

Tratto da “Fumära” di Lorenzo Sartorio (2014)